La medicina narrativa in foniatria artistica: la complessa assenza di voce dell'Artista
#Medicina Narrativa #Psicologia della Voce #Disfonie psicogene
23 minutiUna pubblicazione di Andrea Bianchino sulla rivista MHMN - Medical Humanities & Medicina Narrativa (Vol. 2/2020, Aracne Editrice), a cura di Maura Striano.
Abstract
La medicina narrativa è fonte di inestimabile ricchezza per l’osservazione e la cura. In particolare, l’artista vocale si nutre e si rigenera tramite la sofferenza, che può sfociare in patologia. Per sanare la sua emotività, necessita del professionista, specialista in voce artistica, che osservi e si metta in contatto con il lato-ombra dell’umano, facendo emergere la vera causa del disagio fonatorio. Dopo aver citato casi di studio, si promuove il ritorno al concetto greco di “clinico”: colui che si china verso il paziente.
1. Introduzione
Luogo della comunicazione e della creatività, punto di incontro tra l’interiorità e il mondo esterno, la voce è un fenomeno umano sottile e complesso. Le sue zone di luce sono conoscibili e osservabili tramite strumenti scientifici, mentre le sue zone d’ombra si addentrano in profondità nell’emotività dell’individuo, e possono essere conosciute solamente passando attraverso la porta dell’irrazionale. Così come la voce, anche le sue disfonie possono essere tanto di matrice organica e funzionale, quanto di matrice psichica.
La ferita interiore di ogni persona, è, nell’artista - dotato di una sensibilità fuori dal comune - più sconfinata e più profonda. In pochi riescono a rielaborare il dolore, sublimandolo, come in un atto alchemico, in forza creativa e rigenerativa, mentre molti altri si lasciano inquinare dai propri nodi emotivi, fino al punto di boicottarsi e di spegnersi in grandi fallimenti artistici.
Questa premessa per fare luce su come la trattazione della patologia possa risolversi unicamente adottando un approccio integrato di tipo bio-narrativo, in grado di unire scienza e spirito. Il percorso di abilitazione e riabilitazione chiama l’artista e il clinico a un viaggio nelle zone d’ombra della voce, dell’inconscio e della creatività, alla ricerca di potenti rivelazioni sulla storia del paziente. Grazie all’uso della parola, la cura non viene più intesa come semplice prescrizione e somministrazione di farmaci, ma diventa un momento di premura, consapevolezza e ascolto. Il clinico ha il compito di chinarsi verso il paziente, riducendo le distanze con lui per poterlo ascoltare, per sentire la sua Voce e per capire, assieme a lui, il significato di ciò che accade.
2. In difesa dell’artista c’è la disfonia: disfunzione fonatoria o disfunzione emotiva?
L’umanità ha sempre avuto due eserciti: uno armato, composto da soldati in grado di difendere la sua incolumità fisica, e uno disarmato, formato da artisti capaci di difendere la sua incolumità spirituale. L’esercito armato ha usato strumenti di morte sempre più efficaci, quello disarmato ha affinato strumenti di vita attraverso la pittura, la poesia, la scultura, la danza, la recitazione, il canto... Queste attività umane sono identificabili come Humanities, e la medicina narrativa è una di queste. Sono discipline che studiano la cultura, l’esistenza e le manifestazioni dell’uomo nella storia, ma non solo nel passato, anzi soprattutto nel loro essere attuale e contemporaneo. Mettono al centro della loro indagine l’umano, anziché la storia. Possiamo definirle come discipline antropocentriche della storia della creatività umana individuale. L’arte, e così quella vocale, per difendere il proprio patrimonio creativo da nemici terribili come l’ignoranza, ha avuto bisogno di alleati che, nell’ambito della voce, ha trovato in medici, otorini, foniatri, vocologi, didatti, psicologi e logopedisti. Questi paladini non sono solo custodi di uno scrigno molto più ricco della mera anatomia e fisiologia d’organo, ma anche allevatori e culle per lo sviluppo umano.
In questo senso la voce è sia sintomo che causa del malessere personale. Il groppo alla gola ostacola la comunicazione parlata e cantata, nonostante, dal punto di vista fisiologico, anche nei momenti più carichi di emotività, lo strumento possa essere ineccepibile: la propulsione respiratoria risponde a range pressori sufficienti, le pliche vocali vere svolgono la loro funzione vibrante e le cavità di risonanza modificano il loro spazio in giusto modo, come da copione fonetico, ma il prodotto in toto non mantiene le promesse delle singole parti. Le labbra si aprono, ma al posto della voce sonora e timbrata, esce soltanto aria vagamente sonorizzata: rumore. Il deterioramento vocale è dovuto in parte a vere e proprie violenze attuate dal comportamento, dal metabolismo, dai tessuti e dall’ambiente nei confronti dell’armonia fisiologica, il tutto sempre avvelenato dall’emotività, o prima o dopo.
In persone dotate di spiccata sensibilità, l’emotività tende ad essere sempre in sovraccarico e, più la persona è emotivamente feribile, più si trova, senza saperlo, esposta al rischio della incapacità comunicativa. Ecco che ricordo il pianto della cantante folcloristica affetta da polipo emorragico con esito disfonico grave, con indicazione chirurgica e farmacologica; ricordo, allo stesso modo, la perdita di speranza del presentatore ormai “affetto” da cronica terapia fallimentare; ricordo la soprano in arresto per detenzione di talento sfrenato; ricordo, la bambina canterina figlia del pianista sull’oceano; ricordo, infine, l’attrice cieca soffocata dalla sua grandissima visione... Li ricordo tutti. Inconsapevolmente, l’artista, che per sua natura è caratterizzato da sensibilità aperta, è portato ad accumulare nella propria interiorità grandi quantità di emozioni inespresse, pronte ad esplodere come dinamite nell’apparato fonatorio.
Spesso il sintomo vocale è l’unico disordine visibile e osservabile di una sofferenza interiore che non conosce confini, così la “benedetta” patologia permette al professionista di rendere consapevole il proprio bagaglio di sospesi emotivi che altrimenti passerebbero inosservati. Una ferita interiore continua a sanguinare e, nonostante il tempo, difficilmente si trasforma in pathos artistico, in essenza rigenerativa, ma molto più spesso boicotta l’intero sistema.
Cosa avviene quando una piccola goccia di inchiostro cade nell’acqua limpida? Si realizza un inquinamento subdolo, subliminale e sottile, ma che pian piano colora o sfregia la magnificenza della costituzione. Una persona dotata vocalmente, ma soffocata per inerzia, per trasformarsi da individuo sofferente in energia acustica ha bisogno di imparare a conoscere e riconoscere il proprio dolore, rielaborarlo e sublimarlo fino a farlo diventare fuoco incandescente di vita. P. Bonolis durante l’intervista ad A. Merini, presentata su canale cinque, domanda: “Pensa che la mente del poeta sia più vulnerabile di quella delle altre persone?”. Alda Merini risponde: “Il poeta soffre molto di più, però ha una dignità che... non si difende neanche alle volte. È bello accettare anche il male. Una delle prerogative del poeta, che è anche stata la mia, è non discutere mai da che parte venisse il male: l’ho accettato ed è diventato un vestito incandescente, è diventato poesia, ecco il cambiamento della materia che diventa fuoco, fuoco d’amore per gli altri, anche per chi ti ha insultato...”. Se non si impara “l’arte dell’alchimia” non si possono mettere le ali alla comunicazione; la voce raggiunge la pienezza interpretativa quando le ferite interiori smettono di sanguinare e si trasformano in cicatrici morbide, sensibili, consapevoli e non afflitte.
3. Yin e Yang della voce: alle origini della cura.
La voce ha due facce come la luna: una esplorabile dalla ragione e una intuibile con l’irrazionale. Possiamo misurare scientificamente il volume in Db, la frequenza in Hz, il timbro in spettrografia, osservare la morfologia e la funzione delle pliche vocali con la VLSS: con questi strumenti avremo conosciuto il suono, non la voce. Per capire quest’ultima dovremo scandagliare gli aspetti psicologici più profondi, che fanno di ogni singolo artista un interprete unico al mondo. La voce è prodotta fisicamente dall’apparato pneumo-fono-articolatorio, che trasduce da input di personalità. Per conoscere il lato oscuro, l’ombra junghiana, è necessario servirsi di strumenti analogici. Quando Dante si accorse di aver smarrito la “diritta via” e di essersi perso nella selva oscura, scelse come guida Virgilio, un poeta, e non uno scienziato.
Per questo motivo la parola all’inconscio è d’obbligo, sia nell’abilitazione che nella riabilitazione della patologia. Nella fiaba di H.C. Andersen si rimembra che per arrivare alla maturità emotiva, la parte razionale e la razionalità si devono sposare, come l’Ombra e la Principessa che vede troppo chiaro. Non bisogna sottovalutare la zona d’ombra, perché è in grado di portare alla distruzione la parte razionale. La maggior parte dei fallimenti artistici in persone dotate vocalmente è ascrivibile a motivi emotivi come l’autostima traballante, la difficoltà a reggere frustrazioni, la scarsa capacità di automotivarsi in assenza di gratificazioni esterne, la tendenza a trasformare un fallimento in identità perdente, le scelte professionali fatte per compiacere o sfidare la famiglia... quindi all’insufficiente conoscenza o alla mancata risoluzione dei conflitti che caratterizzano l’ombra. E. Bach diceva che “la perfetta salute e il pieno risveglio sono in realtà la stessa cosa”.
Mi sono interrogato profondamente su cosa significhi realmente cura e guarigione, sono parole gravide di significato che necessitano come punto di partenza l’etimologia stessa. Curare deriva dalla radice “cura”, ku o kav, che significa “osservare”, la radice san- scrita potrebbe essere kavi “saggio”. Nella sua forma latina più antica si scriveva “coera” ed era usata in un contesto di relazioni di amore e amicizia; essa imprimeva un atteggiamento di premura, vigilanza, preoccupazione nei confronti di un oggetto o persona amati. La cura sorge dunque quando l’esistenza di qualcuno o qualcosa ha importanza per me. Si tratta di un modo di essere, un attributo della relazione che teniamo con noi stessi e con gli altri.
Curarsi in quest’ottica può significare ricorrere ad un farmaco senza neppure sapere cosa realmente produrrà in noi? Curare può significare prescriverlo senza spiegarlo? Certo che no. Il termine guarire dal latino, nel significato attribuito oggi, corrisponde a “far tornare in salute chi è malato”, corrisponde al verbo sanare o convalescere, mentre come indicato sul vocabolario etimologico di O. Pianigiani, la parola guarire compare nell’antico spagnolo come guarecer, proveniente dalla radice garir, derivante dalla radice germanica wher “difesa” o ware dall’inglese “osservazione”, “consapevolezza”, “proteggere”. Il confronto con le lingue indoeuropee ci restituisce il senso profondo di un’autentica matrice, nel quale risuonano parole come: osservazione, salute, guarigione, sguardo, guardia... L’excursus etimologico ci fa comprendere che il processo di risveglio, di condivisione, di osservazione ci guida a ricercare il bello. Se ci risvegliamo e andiamo a cercare il bello, troviamo collegamenti significativi e rivelazioni potenti. La prima scoperta è che le parole "cura" e "guarigione" sono molto di più del mero significato informativo, ma un vero atto di amore per qualcosa o qualcuno a cui si tiene, il secondo è che l’arte dell’osservazione volge uno sguardo allo “luce”. L’integrazione scienza e spirito fa dialogare, riunire, integrare il vero senso del processo di guarigione.
4. La voce nelle professioni che promuovono la salute.
Nell’ambito delle relazioni di aiuto e delle professioni che promuovono la salute in particolare, la voce, in quanto strumento di comunicazione, riveste un ruolo assolutamente prioritario. La duplice valenza che essa esprime si traduce in aspetti relazionali e strumentali. Le suggestioni sulla voce del proprio terapeuta, riverite dai pazienti in trattamento psicoterapico, possono dare un incipit alla nostra riflessione. I pazienti riferiscono:
- Certe frasi, certe parole dette dalla psicoterapeuta mi rimangono dentro e affiorano nella mia mente durante la giornata, mi danno un senso di sicurezza, mi spingono a guardare dentro di me.
- Durante le sedute la voce dello psicoterapeuta non si inasprisce mai.
- La voce in psicoterapia ha un ruolo sedante, tranquillizzante.
- Lo psicoterapeuta dovrebbe avere una voce dolce, sicura e rassicurante.
- Deve comunicare con il paziente che gli vuole bene.
- La voce dello psicoterapeuta deve essere sincera.
La voce di questi professionisti è stata descritta con termini caratterizzanti precise sensazioni, invocanti nel paziente stati d’animo precisi. Sicuramente le caratteristiche acustiche in questione sono ben delineate a livello meccanico, quali inizi del suono morbidi, maggior grado di inclinazione tiroidea, vibrazione con una buona onda mucosa, spazio risonanziale adeguato. Tutto questo non è ottenuto, però, da una scelta di impostazione quanto da una sensibile centratura psico-fisica, che naturalmente si traduce in segnale sonoro. La meccanica fonatoria può indurre emozione nell’ascoltatore come l’emozione modifica la funzione. Naturalmente, quando piangiamo, le corde vocali vere si allungano, il bordo è più teso, la massa si alleggerisce e la vibrazione risulta più “sottile” e precisa; allo stesso modo quando mimiamo il pianto si verificano le stesse modificazioni delle strutture. Quindi, se da un lato uno sforzo emotivo provoca un risultato acustico penetrante nelle corde dell’ascoltatore, un’imposizione meccanica personale provoca un’emozione a chi ascolta. La voce in termini strumentali è mezzo di relazione e fa si che un disturbo vocale o un’afonia abbia proprietà biunivoca.
5. Il silenzio e la sofferenza: disfonie psicogene e narrazione.
Se nel contesto comunicativo la parola dice e la voce tradisce, nel contesto interpretativo l’afonia, la disfonia e la disodia, che non trovano giustificazione patologica, sono vere e proprie indiscrezioni sulle ferite emotive degli artisti.
Monica ha 45 anni, è sposata, ha 3 figli ed insegna matematica alle scuole superiori, ha una vita molto piena di impegni, ma ha il cuore vuoto perché il suo matrimonio è un fallimento. Coltiva l’hobby per il canto in un coro polifonico, e quando si innamora del collega capisce che il canto aveva solo tenuto il posto emozionale all’amore. La storia si rivela intensa e breve, finisce in una frustrazione profonda, il canto non le interessa più. Non trova più il senso e un’afonia di un paio di mesi le spegne la voce.
Carla ha 35 anni, è entrata a lezione di canto per volere del marito, che voleva toglierla dall’abitudine casalinga e dal lavoro. Carla suona in un complesso e si esibisce nei locali per arrotondare lo stipendio del marito, in una lotta continua contro il suo desiderio, una disfonia decide per lei.
Le disfonie psicogene sono un’alterazione della qualità della voce o del suo meccanismo di produzione, dove il malessere della sfera emotivo-relazione, non altrimenti evidente, è responsabile parzialmente o completamente della sintomatologia presentata. Le disfonie psichiche insorgono in un quadro di apparente benessere psichico, il paziente è il primo a credere nella genesi organica, e spesso resiste all’evidenza della diagnosi. Si verificano disfonie muscolo-tensive secondarie che spesso si inquadrano come emi-paresi non organiche. Spesso si prescrive l’intervento in FEPS con grasso autologo per migliorare l’adduzione, quando basterebbe una manipolazione laringea e tanta parola e narrazione con il paziente. Il sintomo psicogeno è un sintomo funzionale, ossia non si rilevano all’esame clinico alterazioni anatomopatologiche. Il paziente modifica le sue abilità in modo che la voce risulti strozzata, paralitica, o eccessivamente acuta. L’alterazione della qualità della voce mimetizza un trauma subito. Riconoscere la voce del nostro Io bambino tramite l’empatia, l’ascolto attivo, la comprensione, è fondamentale per non incorrere in situazioni disfunzionali di questo tipo.
Le emozioni sono fenomeni reattivi, mossi da uno stimolo reale, immaginario, interno, o esterno. Sono eventi neurovegetativi per via della funzione adattiva che svolgono: modificano il nostro stato per rispondere allo stimolo. Esse hanno specifici pattern neurobiologici osservabili, con vie di scarico somatico ben precise. Per esempio la rabbia si manifesta come un calore che risale dall’addome, al torace, fino alle braccia, e produce un incremento di energia pronta a colpire e a mettere in atto un comportamento violento. Questa assunzione deriva da una delle tecniche psicoterapiche più studiate come la ISTDP. Il cervello quindi può essere visto come una sacca di ormoni, e la psiche come un direttore d’orchestra di neuropeptidi, neurotrasmettitori che compongono un dialogo tra il sistema nervoso, il sistema endocrino e il sistema immunitario.
Le ricerche confermano che le emozioni represse “finiscono” nel corpo e possono produrre sintomi a carico di qualsiasi apparato, da sintomi respiratori a disturbi cardiovascolari, gastroenterici, muscolo scheletrici, neurologici, dermatologici, e così via. Persino gli studi rispetto ai tassi di mortalità dimostrano che la sindrome da superstress produce un tasso di mortalità più alta e precoce.
Così la soluzione alla trattazione della patologia può risolversi unicamente con un approccio integrato di tipo bio-narrativo, dove l’osservazione, lo sviluppo della coscienza e della creatività sono tanto importanti quanto la clinica. Spesso ci dimentichiamo che la parola Clinica deriva dal verbo greco κλ?νω (clino), atto del chinarsi sopra. Clinico è quel medico che si china sopra un soggetto che in quel momento è impossibilitato ad alzarsi. Esercitare la clinica significa quindi principalmente inclinarsi sopra il malato, cioè rivolgersi a lui “abbassandosi”. Come tutti i verbi di moto κλ?νω prevede la possibilità di due prospettive: quella del medico che va verso, e quella del malato che vede il medico venire verso. Proprio nella scelta dell’analizzatore usato possiamo distinguere due diverse modalità di relazione. Nella accezione di andare verso l’oggetto attenzionale è il medico che si china. Egli dall’alto del proprio stato di salute (i sani stanno per definizione in piedi) si volge verso l’allettato, sottolineando una condizione di superiorità (fisica, intellettuale, di ruolo). Nella accezione del venire verso è il malato, dalla propria situazione di impotenza, che vede entrare nel territorio di malattia il medico, facendo posto, nella propria sofferenza (che conosce perfettamente), alla competenza di chi ne sa più di lui sulle sue cause e sulla sua terapia. Nel quotidiano della professione di cura ci troviamo a transire da una situazione all’altra, assumendo talvolta l’atteggiamento di colui che scende verso il bisognoso, talvolta quello di colui che viene accolto.
C’è una terza visione della clinica molto più interessante. Chinarsi per mettersi alla stesso livello del malato, per guardarlo nella prospettiva non dell’up-down, ma dello sguardo condiviso. In questo atteggiamento non è solo il segno (l’obiettività patologica) che interessa, ma il malato come persona, portatore di un racconto di malattia. È questa situazione che può aprire un orizzonte di senso, oltre che sulla patologia, sulla nostra personale vicenda umana. Chinarmi verso il malato ha perso il senso dell’abbassarmi, del volgermi verso un corpo. Sono diventato un “clinico che chiede”. Mi chino per ridurre le distanze, per ascoltare, per sentire la voce. Questo non nega la ricerca dei segni obiettivi, non nega il valore delle evidenze: semplicemente riposiziona me e il paziente sullo stesso piano. Insieme cerchiamo di dare significato a ciò che accade.
Conclusioni
“L’artista è portato ad accumulare nella propria interiorità grandi quantità di emozioni inespresse, pronte ad esplodere come dinamite nell’apparato fonatorio”. Ciò che è inosservabile di una sofferenza interiore si sviluppa spesso in patologie di diverso genere, ancora più spesso in problemi legati alla comunicazione. I sospesi emotivi “pesano”, sono ancore con le quali la nave deve convivere. La medicina narrativa nella sua pratica di ascolto empatico e profondo, di anamnesi e cura condivisa può essere uno dei cammini risolutivi da percorrere. L’arte della foniatra si deve interessare, oltre che agli ambiti clinico-diagnostici, anche al suo interlocutore ovvero l’uomo fragile, qui denominato artista. Citando il libro di O. Schindler “il canto come tecnica e la foniatra come arte”, si deve costruire una forma di ricerca biunivoca tra l’artista e il medico dove la compartecipazione degli ambienti possa far sorgere un insieme unione.
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